• La mano si avvicina alla bocca con movimenti lenti, una due, tre, quattro, dopo un po’ non si contano più i pezzi di vita che cadono in ogni pastiglia. La pesantezza di un’esistenza, la sicurezza di non avere mai avuto la certezza di assaporare la felicità, continuano a scendere in quel corpo adagiato su un divano d’un grigio spento. Si chiamava, così, Irma, fiore inebriante in un corpo minuto. Lei era sempre lì davanti alla porta, la luce risplendente sul viso, gli occhi cristalli con mille sfaccettature, raccoglieva ogni sorriso passante in un quartiere che non era il suo. Per casa mille ricordi vaganti, dove solo l’odore persistente dei muri cocenti di voglia di vivere aspettavano il giorno e poi la sera per tracciare qualcosa di lei. Un giorno sazio d’autunno di siepi e alberi stecchiti, Nando si avvicinò privo di ogni pensiero e la baciò. Lei rimase immobile per qualche istante, poi ricambiò quel bacio, non una parola, non una frase. E’ camminando in quel delirio, che incontrò quel dannato vestito d’angelo, pensò lui a farla sbocciare in un altro fiore. Nando girava con la sua alienazione, quando voleva fuggire, ”sognare”, diceva lui. Un giorno, un calcolo sbagliato, cadde nel bagno, il viaggio era incominciato, quello che terminava con il pianto di chi l’aveva amato. Lei si iniettò di quel veleno forse vivere era più difficile, nascose la verità nell’intimo di una falsità ben concepita. La portarono su letti bianchi dove la gioia è nascosta dalla speranza ma la solitudine ninfa di un viaggiare la fece tornare nel suo limbo. Ossessiva, solo la morte fa contorno, ora, al suo essere.

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    La vidi per la prima volta al banco dei salumi, piccola di statura molto magra si può dire anoressica, un viso scarnito coperto da un trucco pesante. Mi colpì il suo modo di esprimersi dolce, con delle sfumature di riflessione che poche persone hanno la capacità di comunicare. Notai i suoi occhi neri spenti prigionieri della realtà che a stento la ritraeva. Le sue labbra piccole sbavate d’un rossetto rosso fuoco attiravano solo l’attenzione di chi scagliava una parola di troppo. Lei richiamata da quelle lusinghe ostentava il suo piacere, non capendo che incuneava solo malizie. Mi scossero quelle ossa che spuntavano dalle spalle sostenendo una maglietta bianca, modellava un’affiorante gobbetta che cercava di nascondere dietro i lunghi capelli mossi tinti castani- mogano. Le sue mani, scheletri, con unghie laccate rosse trasalivano come foglie al vento.  Nell’attesa del nostro turno incominciò a raccontare qualche briciola della sua vita. Scorreva, senza sosta tra le dita, una ciocca dei suoi capelli, più che una donna vidi in quel gesto il disagio di una bambina. Una luce materna accarezzò il pensiero, mi lasciai catturare da quelle parole. Mi parlò della sua solitudine, d’un amore perso e mai più ritrovato, di una famiglia che l’aveva bandita. Il suo destino errante si adagiava in un equilibrio logico tra notte e giorno superando i limiti dell’attesa. Le sue visioni analizzavano la natura attraverso il filtro dell’interiorità che trasferiva nelle sue tavolozze che danzavano armoniosamente di colori caldi e freddi, con tratti gravi, pedanti quasi turbati, con apparizioni fugaci che generano il nulla o dal caos. E’ entrata nella mia vita, destando in me un senso solidarietà che mi vede protagonista nella società. Divenni il suo mentore, asciugai le sue lacrime d’afflizione, scavai i suoi silenzi per darle voce, scolpii le sue parole mute raccontando il limite di una testa suicida, gli interessi di una mano. Ho vissuto momenti ubriachi di sensazioni di una voce debole ormai scarsa d’udienza. Cospargere il susseguirsi dei giorni con il polline dell’amore, inseminando la relazione con lo sperma produttivo del sentimento non sempre rende il rapporto tangibile. L’amicizia diventata camaleontica, sfinita, accompagnata d’un nuovo presente sbalestrato e illusorio nel disordine di quella vita da te non vissuta se pure capita.  Gocciolante divenne la sua ambiguità formando nuovi scenari la cui veste mi stringeva, asfissiavo.  Non volli essere un fantoccio nell’arena di una vita bruciata. Pur legata a quei fili che tirava ho cercato di non farmi trascinare dalle sue bugie nel pozzo di desideri scellerati. Gli esili filamenti accompagnati dal grigiore del mio diritto alla rabbia mi faceva esprimere l’indignazione, inseguivo la verità, mentre un mondo falso pieno di espedienti viaggiava con la sua anima vuota senza meta. Le mie mani si arresero nelle annegate parole e urla immorali. Mi sciolsi da quell’abbraccio contando i giorni, le ore, i minuti trascorsi lenti nella tristezza di un risveglio insolente. Capii, che acri sospiri vestiti d’angelo sgusciavano la mia vita. Restituiti ogni singolo oggetto appartenutole per liberarmi dalla morsa dei brutti ricordi ma ancora oggi sono seguita dalla bufera dei suoi eventi. Cerco di rilassarmi valutando il dolore capendo il mio ruolo in questo gioco illogico cercando pesanti risposte. Ed ecco che risuonano le sue lacrime, colori morti in una malata di ambizione in un corpo apparentemente innocente. Non è più tempo dei sorrisi accesi nell’incanto della fantasia, devo tornare in piedi e passo dopo passo riprendere la mia vita.

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  • Dalle montagne il torrente conduce al dolce di zenzero, alle noccioline di piccolo formato. Laura la selvaggia, corse giù per il colle, si levò la sua veste scalciando, si stese sull’erba come una venere ubriaca. Davanti ai suoi occhi di strega sopra la bocca d’un cherubino si formarono un corteo di forme e ricordi. Solo i fiori sbocciati con orgoglio sensuale custodivano le sue confidenze.

     

    “Arriva qualcuno!  Zitta , zitta piccola zingara”, intimavano i fiori che la cingevano.

     

    Così, polposa e bella lei si placava immobile all’avvicinare del vento che sgualciva nell’istante una margherita per carpire quel segreto.

     

    “Che fai piccola fata agghindata di crema e burro” le disse il vento.

    “ Posso assaggiare il tuo bel visino.”

     

    “Amo i prati, i fiori, le colline, le valli i greggi, su non fare la sdegnosa, lasciati accarezzare”.

     

    Laura era tentata voleva rinfrescarsi dall’arsura ma le pecore sul declino del prato incominciarono a belare, la ginestra con i suoi speroni sottili e verdi le impigliarono il vestito, gli argini del torrente incominciarono a brontolare, dal cavo d’un albero dove le vespe si raccoglievano in sciami levò un ronzio assordante, anche un bocciolo verde lungo come una spiga che le stava accanto la tratteneva.

     

     Conoscevano bene il vento nelle sue quattro stagioni. In primavera sensuale e fantasioso, in estate ruminante e pensieroso, in autunno stanco e ozioso nelle nebbie, in inverno assumeva una pallida deformazione. Non era affidabile.

     

    Nessuno di loro voleva perdere quell’abitante dei boschi così allegra e ineludibile alla vita.  

     

    Laura spaventata dal quel chiacchiericcio legò il vento nella sua ombra ad una vecchia quercia addormentata. In quell’attimo fuggente le porte si aprirono al sole inebriando poesia e canti nei gemiti del cielo.

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